Un nuovo studio collega un’ondata di eruzioni vulcaniche del XIV secolo al raffreddamento climatico che colpì il Mediterraneo prima della Peste Nera.
Le carestie causate dal clima costrinsero le città italiane a riaprire i commerci con le regioni afflitte dal morbo, importando cereali… e pulci infette. Il risultato fu la pandemia più devastante della storia documentata europea.
Tra il 1347 e il 1353, l’Europa fu investita da una pandemia di proporzioni mai viste prima: la Peste Nera, causata da una variante particolarmente letale di Yersinia pestis, eliminò più della metà della popolazione continentale. Iniziata nei porti italiani, l’epidemia si diffuse rapidamente, sostenuta da condizioni sociali, ambientali ed economiche che ne facilitarono la propagazione.
Le origini geografiche e biologiche del batterio sono state ampiamente studiate, ma restava poco chiaro perché il patogeno sia arrivato in Europa proprio in quel momento storico. Una nuova ricerca pubblicata su Communications Earth & Environment propone una chiave di lettura innovativa: un evento vulcanico globale potrebbe aver innescato, attraverso una catena di eventi indiretti, l’esplosione della pandemia.
I primi indizi sono emersi da analisi dendrocronologiche condotte da Ulf Büntgen, climatologo dell’Università di Cambridge. Gli alberi d’alta quota nei Pirenei mostravano anelli di crescita anomali, segno di estati insolitamente fredde nel 1345 e 1346. Questo dato è stato confermato da otto ulteriori cronologie arboree provenienti da varie regioni europee.
Parallelamente, i carotaggi nei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide hanno rivelato un forte incremento di zolfo atmosferico in quegli stessi anni, indicatore di eruzioni vulcaniche a elevato contenuto di particolato solforico. L’effetto combinato di questi fenomeni fu un raffreddamento diffuso, non estremo ma persistente per due anni consecutivi.
Le conseguenze ambientali delle eruzioni si manifestarono con un crollo dei raccolti in vaste aree dell’Europa meridionale. Le città italiane, in particolare, furono colpite da gravi carenze alimentari nelle estati del 1345 e del 1346, portando il prezzo del grano ai livelli più alti degli ultimi 80 anni.
Fonti storiche provenienti da Francia, Italia e Giappone descrivono quegli anni come insolitamente nuvolosi, condizione compatibile con la presenza di aerosol vulcanici in atmosfera. La scarsità di cibo e l’incremento dei prezzi alimentarono tensioni sociali nelle città italiane, tanto da costringere le autorità locali a mobilitare risorse straordinarie per l’approvvigionamento di cereali.
Nel Trecento, città-stato come Venezia e Genova avevano costruito una rete commerciale estesa nel Mediterraneo e nel Mar Nero. Parte della loro resilienza economica risiedeva nella capacità di importare grano e mantenerne riserve strategiche.
Tuttavia, a partire dal 1343, un conflitto con l’Impero Mongolo aveva interrotto i flussi commerciali con i porti del Mar Nero, tradizionali fonti di approvvigionamento. Le città si rivolsero temporaneamente a Sicilia, Spagna e Africa settentrionale, ma la crisi climatica rese questi mercati insufficienti.
Nel 1347, sotto la pressione delle carestie, Genova e Venezia firmarono accordi di pace con i Mongoli, riaprendo i traffici verso le coste del Mar Nero, oggi parte della Crimea e dell’<strong’Ucraina meridionale.
Con la ripresa degli scambi, galee cariche di grano partirono dalle città portuali del Mar Nero verso l’Italia. Ma nei carichi non c’erano solo cereali. Insieme al grano, i mercanti importarono pulci infette da Yersinia pestis, sopravvissute nella polvere delle stive e nei sacchi di grano.
Fonti storiche indicano che le armate mongole erano già afflitte dalla peste da diversi anni, e il ritorno degli scambi commerciali con quella regione creò un ponte epidemiologico tra Asia e Europa.
Come spiegano Büntgen e lo storico Martin Bauch, autore della ricerca insieme a lui, l’ingresso del patogeno in Italia fu una conseguenza indiretta delle difficoltà climatiche. Senza carestia, non ci sarebbe stata riapertura dei commerci con le regioni contaminate.
Il primo impatto della peste si registrò proprio nelle città che avevano ripreso a importare grano dal Mar Nero. Venezia e Genova divennero i punti di ingresso principali del contagio in Europa, e da lì la malattia si diffuse lungo le principali rotte commerciali e urbane.
Città più interne e meno dipendenti dalle importazioni alimentari, come Roma e Milano, registrarono l’arrivo dell’epidemia solo successivamente, confermando l’importanza del commercio come vettore di diffusione.
Secondo Büntgen, il caso della Peste Nera rappresenta un esempio precoce di come la globalizzazione dei traffici commerciali possa facilitare l’insorgenza di crisi sanitarie su larga scala. Il commercio marittimo del XIV secolo, con le sue reti interconnesse tra Asia, Mediterraneo e Europa occidentale, costituiva un’infrastruttura ideale per la diffusione rapida di agenti patogeni.
Lo studio sottolinea come eventi apparentemente scollegati – eruzioni vulcaniche remote, anomalie climatiche, crisi alimentari, riassetti geopolitici – possano confluire in una catena causale che sfocia in una pandemia.
Il lavoro pubblicato su Communications Earth & Environment rappresenta un esempio di ricerca integrata che unisce:
L’approccio consente di superare la visione esclusivamente biologica dell’epidemia e di inserire la Peste Nera in un contesto sistemico complesso, in cui l’ambiente naturale gioca un ruolo attivo e determinante.
Sebbene lo studio riguardi un evento avvenuto quasi sette secoli fa, la sua rilevanza scientifica è attuale. Comprendere le connessioni tra cambiamenti climatici, sicurezza alimentare e salute pubblica è cruciale anche oggi, in un’epoca in cui la frequenza di eventi climatici estremi è in aumento.
L’interazione tra shock ambientali e strutture socioeconomiche globali può dar luogo a dinamiche simili a quelle del XIV secolo, sebbene in contesti tecnologici molto diversi. Per questo motivo, la ricerca offre spunti concreti per politiche di mitigazione del rischio sistemico anche nel XXI secolo.