Illustrazione di alcune impronte digitali (Canva FOTO) - sciencecue.it
Ora capire chi ha caricato un’arma non sarà difficile, grazie soprattutto ad una serie di metodologie molto particolari.
Quando si parla di sviluppi forensi, una delle sfide più affascinanti, e anche ostiche, è visualizzare le impronte latenti su superfici metalliche complesse come il ottone o le cartucce. In questo studio si esplora un certo processo: depositare polimeri conduttivi e redox in modo selettivo, facendo sì che queste sostanze “riempiano” le parti scoperte tra le creste dell’impronta, rivelandone il contrasto.
Nel corso dell’analisi vengono confrontate diverse combinazioni di monomeri, in particolare EDOT (3,4-etilendiossitiofene), thionina e neutral red su superfici di ottone, sia piane che cilindriche (cartucce). L’obiettivo è definire le condizioni migliori (potenziali, tempi, carica) affinché le impronte emergano con dettagli fine, fino al livello 3 (pori all’interno delle creste). Il lavoro non si limita a prove in laboratorio: vengono anche testate impronte “invecchiate” (fino a 16 mesi) e impronte su superfici trattate termicamente fino a 700 °C.
I risultati mostrano che la miscela EDOT-thionina è quella che dà i risultati più coerenti e definiti, spesso raggiungendo impronte di grado 3 con più del 50 % di caratteristiche di livello 3 riconoscibili. Questo vale tanto sulle superfici piane in laboratorio quanto, con aggiustamenti opportuni, sulle cartucce vere e proprie. L’approccio elettrochimico, se ben calibrato, riesce a visualizzare impronte anche dopo invecchiamento prolungato o esposizione a temperature estreme.
Nel complesso, lo studio rappresenta una fase pilota con potenziale operativo: un metodo meno invasivo rispetto ai reagenti tradizionali, più compatto e compatibile con la conservazione dell’evidenza. Ci sono ancora margini di ottimizzazione, ma il risultato è promettente come possibile alternativa nei laboratori forensi moderni.
Nella prima parte di lavoro, gli autori descrivono i materiali impiegati e le procedure elettrochimiche adottate. Si parte da lastre di ottone (lega CZ108/CW508L) e soluzioni acquose tamponate (0,1 M NaNO₃) contenenti i monomeri (EDOT, thionina, neutral red). Le superfici per diventare elettrodi “attivi”, con l’area delimitata da nastro isolante. Per le cartucce, è realizzata una cella elettrochimica su misura che consente di usarle come elettrodi di lavoro. Le tecniche elettrochimiche includono cicli di voltammetria (potentiodinamica) e metodi a potenziale fisso (potenziostatici).
Gli esperimenti variano tensione applicata (0,1–0,5 V vs Ag|AgCl), tempi (60–120 s) e carica totale (4–6 C). I film depositati vengono caratterizzati con spettroscopie UV-Vis (derivata seconda), infrarossa in riflessione/trasmissione, XPS e con misure ottiche e di microscopia di riflessione. La generazione delle impronte è accuratamente descritta: si impiegano impronte “groomed” (ricche di secrezioni) e naturali, applicate su lastre o cartucce e conservate in ambienti asciutti e bui. Sono testate impronte fresche, invecchiate (5 e 16 mesi) e riscaldate fino a 700 °C. Le immagini acquisite vengono valutate con scale standard (grado 0–3, livello di dettaglio) per confrontare le prestazioni del metodo con tecniche di riferimento.
I risultati mostrano che, su superfici piane, quasi tutte le miscele testate generano impronte visibili, ma la combinazione EDOT-thionina è la più efficace. Con cicli voltammetrici su lastre di ottone, questa miscela produce impronte con dettagli di livello 3 (>50%) in modo costante, mentre altre, come EDOT + neutral red, raggiungono il livello 3 in meno del 50% dei casi. Le osservazioni microscopiche (×1000) evidenziano che EDOT-Th definisce bene i bordi delle creste e consente di distinguere i pori, con un contrasto netto tra il metallo “protetto” e il film depositato. Nel test a potenziale fisso emerge una finestra operativa ottimale: 0,1 V per 120 s in soluzione EDOT-thionina riduce interferenze da bolle o reazioni parasitiche e fornisce impronte visibili anche su campioni “invecchiati”. Impronte conservate fino a 16 mesi risultano ancora leggibili, e persino superfici trattate a 700 °C mostrano tracce riconoscibili, seppur con minor dettaglio (livello 2).
Applicando il metodo alle cartucce, l’approccio voltammetrico consente di ottenere impronte di grado 3 con oltre il 50% delle caratteristiche di livello 3, un risultato notevole in ambito operativo. Nel complesso, i dati indicano che un sistema elettrochimico ben calibrato può diventare uno strumento affidabile per la visualizzazione di impronte latenti su superfici metalliche difficili. Restano sfide pratiche, come l’uniformità del deposito su superfici curve, la resistenza ai contaminanti e la standardizzazione in laboratorio forense. Tuttavia, i vantaggi sono notevoli: reagenti meno aggressivi, conservazione dell’evidenza, rapidità d’uso e possibile applicazione ad altri materiali (monete, coltelli, oggetti metallici).